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San Gennaro nella Filmografia

Il Tesoro di San Gennaro tra Devozione e Cinema

Il Tesoro di San Gennaro tra Devozione e Cinema

Al profondo legame che unisce il santo, la città e i napoletani, allude anche il film “Operazione San Gennaro”. Infatti, sullo sfondo di una Napoli bonaria e pittoresca, viene preparato ed eseguito un grosso colpo: il furto del tesoro di San Gennaro. Al centro dell’intreccio del film è la cripta, dove è custodito il tesoro, oggetto dell’attenzione dei due americani che hanno programmato il furto. Eppure, il tesoro che appare nel film – si tratta di collane, coroncine, croci, rosari e gioielli di vario tipo – è un tesoro ben lontano da quello reale, un tesoro che si può contenere in una borsa, mentre ben più complesso è ciò che costituisce quello che viene denominato il Tesoro di San Gennaro. Si tratta, infatti, di un insieme di gioielli e di oggetti sacri, che dovevano servire per l’uso liturgico quotidiano, come calici, pissidi, cestelli, candelabri, piatti, ostensori accumulati nei secoli dalla devozione e dalle offerte del popolo e dei potenti, papi, sovrani, uomini illustri.

Di particolare pregio sono la mitra e la collana che adornano l’Imbusto del santo, che, in occasione delle festività viene portato in processione e precede le statue argentee degli altri compatroni. Questo busto, che contiene parte delle ossa del cranio del santo, fu realizzato nel 1304 su richiesta di Carlo II, dagli orafi di corte, i quali presero a modello Umberto d’Ormont, un nobile francese, che poi fu nominato arcivescovo. La mitra d’argento, opera di Matteo Treglia del 1713, è composta, secondo la Guida Sacra della città di Napoli di Gennaro Aspreno Galante (1872), di 3694 pietre preziose, tra diamanti, smeraldi e rubini, dono di più cittadini. Particolarmente significativa è la descrizione che fa Galante della preziosissima collana, costituita da tredici maglie di diamanti, smeraldi e rubini, ponendo in evidenza come si sia andata arricchendo progressivamente attraverso i doni, in un intreccio di preziosi e di dinastie. Infatti “la grande collana ha nel mezzo una croce di grossi brillanti donata da Carlo III nel 1734, dalla quale ne pende una più piccola donata dalla regina Amalia nel 1738, una terza è sospesa a destra donata da Francesco I, alla quale è attaccata una quarta dono di Maria Carolina, a sinistra è legato un prezioso ornamento di brillanti, dono di Maria Cristina, dal quale pende una croce dono di Giuseppe Bonaparte”. Ogni sovrano e ogni dinastia ricercava infatti la protezione del santo offrendogli doni preziosi, così il reliquiario del sangue è del 1305, probabilmente dono di Carlo II d’Angiò, ma fu arricchito successivamente nel sec. XVII di elementi barocchi, mentre la sfera d’argento dorata e tempestata di brillanti a taglio d’Olanda e d’Inghilterra e di rubini, collocata poi sull’altare, fu donata da Murat e dalla regina Carolina. Il colpo progettato nel film è ben poca cosa rispetto all’entità degli oggetti custoditi nella Cappella del Tesoro ed ora in parte confluiti nel Museo del Tesoro inaugurato nel 2003, dove sono raccolti antichi documenti, oggetti preziosi, argenti, gioielli, dipinti di inestimabile valore, Ben poco di tutto ciò appare nel film, la stessa effigie del santo non appare in tutto il suo splendore, come è nell’Imbusto, la statua in argento dorato del Santo. Il busto, ricoperto dal manto episcopale e con la mitra, è conservato dietro l’altare maggiore della Cappella, assieme alla teca che contiene le Ampolle con il sangue del Santo. Costituiscono parte rilevante del Tesoro anche le cinquantuno statue in argento dei compatroni di Napoli, che erano portate in processione in occasione delle feste religiose. Queste statue rappresentano un esempio significativo della scultura napoletana e dell’abilità degli argentieri, che operarono a Napoli nei secoli XVII-XVIII. Infatti, alla loro realizzazione hanno contribuito maestri altamente qualificati nel proprio settore: scultori, cesellatori, saldatori, mettitori d’insieme (come erano chiamati gli assemblatori del tempo). Numerosi busti vennero commissionati da confraternite, chiese e monasteri in onore dei loro patroni, spesso venivano realizzati per custodire le reliquie dei santi, che soprattutto nel Seicento ebbero molta importanza nella devozione popolare. Nella Cappella del Tesoro, si trova però il tesoro più importante per i napoletani: il reliquiario che contiene le Sacre Ampolle con il sangue.

Il Tesoro di San Gennaro può quindi essere considerato il Tesoro della Città di Napoli ed ha un forte valore simbolico.

Di fronte a tale complessità, che lo stesso termine Tesoro di San Gennaro evoca, facendo rientrare in esso oggetti preziosi, valutabili dal punto di vista storico e artistico ma anche ciò il cui valore è incommensurabile, come le reliquie ossee e lo stesso sangue, il film sceglie un’impostazione riduttiva e bonaria, il tesoro, anche se si dichiara che il suo valore ammonta a 30 miliardi di lire dell’epoca, è evidentemente molto esiguo rispetto alla realtà. Nel film il culto di San Gennaro è collegato ai caratteri positivi dell’immagine di Napoli e dei napoletani, secondo quella visione oleografica, per la quale San Gennaro, assieme al Vesuvio, al mandolino e a Pulcinella, assurge a elemento figurativo e simbolico della città. Il santo è uno dei protagonisti della vicenda, sia per il legame che vi è tra il culto e la città, sia per il modo in cui è egli stesso parte dell’intreccio.

Il miracolo, o il prodigio, per usare la dizione preferita dalla Chiesa, viene rappresentato all’inizio del film attraverso una serie di elementi topici:

  1. la teca con il sangue viene fatta roteare dal cardinale davanti ai fedeli per dimostrare l’avvenuta liquefazione;
  2. le “parenti” di San Gennaro, invocano il santo con preghiere e canti in dialetto;
  3. il fazzoletto bianco viene fatto sventolare da parte del capo della Deputazione di San Gennaro per annunciare il miracolo.

Sono perciò inquadrati gli aspetti più significativi di un rituale che si ripete da secoli, da quando cioè si è verificato il primo episodio storicamente accertato della liquefazione il 17 agosto 1389, liquefazione che si ripete in tre date il 19 settembre, giorno del martirio, il primo sabato di maggio e il 16 dicembre, a ricordo del miracolo compiuto dal santo in occasione del terremoto del 1631. Nella scena non è però inquadrato sull’altare l’Imbusto del santo, mentre, secondo una credenza diffusa soprattutto in passato, per la riuscita del prodigio, la teca con le ampolle e il busto dovevano essere l’una alla vista dell’altro, per l’importanza che nell’immaginario si attribuisce al vedersi reciprocamente e riconoscersi quali parti di un tutto. Che il culto preesistesse alle prime notizie del prodigio, lo dimostra il fatto che l’effigie del santo è presente sulla più antica monetazione a partire dal ducato bizantino. La prima immagine del santo si trova nelle Catacombe, dove furono traslati i suoi resti mortali nel V secolo, catacombe che da lui hanno preso nome. Tuttavia, il corpo di San Gennaro non riposò in pace poiché fu soggetto a varie traslazioni, infatti, durante l’assedio di Siconio nell’anno 831, fu traslato a Benevento e da lì successivamente a Montevergine. Soltanto nel 1497 le reliquie del santo tornarono a Napoli e furono deposte nella cripta del Duomo. Ma chi era San Gennaro, il patrono di Napoli, la cui immagine ha finito con l’identificarsi con quella della città?

Dai rilievi compiuti alcuni anni fa sulle ossa custodite nel Duomo, si è accertato che appartengono a un uomo giovane, tra i 25 e i 30 anni, dato che conferma l’immagine presente nelle raffigurazioni iconografiche, a partire da quella delle catacombe, nella quale appare giovane e imberbe, con tunica e pallio e dei sandali ai piedi. Sono poche le notizie che abbiamo sulla sua vita e sulla sua identità, sappiamo che fu vescovo di Benevento e morì martire a Pozzuoli insieme ad altri sei cristiani, durante le persecuzioni di Diocleziano nel settembre del 305. Secondo le notizie tramandate, si era recato a Pozzuoli insieme agli amici Festo e Desiderio, per trovare il diacono Sosio che era in carcere. Venne arrestato, condannato a morte e decapitato con i compagni nei pressi della Solfatara assieme ad altri tre puteolani: Procolo, Eutichete e Acunzo.

Non essendoci altri dati certi, si è trasmessa una leggenda legata al suo martirio, che presenta analogie con altre storie di martiri: Gennaro si era recato a fare una visita pastorale a Nola, lì era stato arrestato e tagliato a pezzi; tuttavia, il suo corpo si era miracolosamente ricomposto, allora era stato gettato in una fornace ardente, ma il fuoco nulla aveva potuto contro di lui. Il prefetto Timoteo aveva così deciso di portare con sé Gennaro, Festo e Desiderio a Pozzuoli, dove assieme ai tre puteolani, erano stati gettati nell’anfiteatro perché i leoni li sbranassero, di fronte al ritirarsi di questi, erano stati sottoposti alla decapitazione, che aveva posto fine a tanti prodigi. Tuttavia è la decapitazione a dare origine al prodigio più singolare, dal momento che una pia donna ne raccolse il sangue.

Lo spargimento di sangue sul modello di Cristo caratterizza i martiri, nel caso di San Gennaro, il sangue che si liquefa e si coagula, comportandosi come un organismo vitale, acquista un forte valore simbolico, segnando il rapporto che unisce la città al suo santo. La città, nel suo centro antico, conserva un numeroso repertorio di reliquie di sangue prodigiose ed oggetto di culto, tra cui la teca con il sangue di Santa Patrizia, compatrona di Napoli, anch’esso soggetto a liquefazione con cadenza regolare. Attraverso il linguaggio del sangue, l’indicibile e non verificabile diviene tangibile e si materializza. Attraverso il trascendente che diventa visibile, si soddisfa anche il bisogno di concretezza proprio della religione popolare. Così un santo dei primi secoli del Cristianesimo, della cui vita si sa molto poco, che è vissuto a Benevento e morto a Pozzuoli, assume i caratteri della familiarità e entra a far parte della quotidianità dei napoletani. Il legame anche fisico del santo con Napoli viene sancito attraverso la presenza di quelle che vengono definite, secondo la tradizione, “parenti”, a stabilire un senso di continuità e appartenenza. Le donne, che si sono tramandate, di generazione in generazione, l’impegno di invocare il santo affinché operi il miracolo tanto atteso da tutta la città, ripetono cantilenando in dialetto antiche espressioni, che per l’incisività del momento sembrano antichi formulari. La liquefazione del sangue assume infatti significato oracolare, poiché dal modo in cui si verifica si traggono auspici per l’intera città. Il santo martire funge da sostituto simbolico dell’intera comunità: nel corso del rito con il liquefarsi del suo sangue attesta che la città è purificata, allontanando i mali e le negatività dalla comunità, in modo che la città, superato il senso di attesa che circonda il prodigio, possa riprendere il suo cammino. Un santo perciò con cui il devoto ricerca un rapporto diretto ma che, attraverso il prodigio della liquefazione assume valore collettivo, salvifico, per la città nella sua interezza. I due americani e la bella Maggie, arrivati a Napoli, hanno bisogno di trovare dei soci nella malavita locale, in una città, che appare ancora dominata dal piccolo commercio di merci e servizi che caratterizzava l’economia del vicolo, dalla vendita delle pizze fritte, al piccolo lustrascarpe. Il contrasto tra l’efficienza e l‘organizzazione degli americani e il modo di procedere dei napoletani è subito posto in evidenza, attraverso una serie di situazioni comiche e paradossali. Manfredi/Dudù, il guappo di quartiere, a cui i due americani vengono indirizzati da Totò/don Vincenzo, che si trova nel carcere di Poggioreale, è un uomo di “rispetto”, che esercita un’autorità personale nella vita del quartiere. Tuttavia, di fronte a un colpo di questo tipo, anche su indicazione di don Vincenzo, chiede l’autorizzazione del santo pregando dinanzi alla statua. Si ha così un’interessante delineazione della figura di questo guappo, egli sa “parlare” con il santo “da uomo a uomo”, gli si rivolge secondo modalità affettive, invocando la protezione, il permesso per ciò che sta per compiere, chiedendo un segno di conferma. Il segno arriva quando un fascio di luce rischiara la cappella. Per questa scena, è possibile accostare la caratterizzazione di Dudù alla figura di De Pretore Vincenzo di Eduardo, il ladruncolo napoletano devoto di San Giuseppe. Come De Pretore, Dudù ricerca un rapporto diretto con il santo, anche se il suo comportamento di vita non è conforme alla morale religiosa e sociale, offre delle candele, si rivolge in modo franco e immediato al santo, è pronto ad interpretarne i segni.

Il furto viene compiuto nella serata del finale del festival della canzone napoletana in una città deserta, in cui tutti sono davanti alla televisione. Tuttavia, per una serie di colpi di scena, è Dudù, suo malgrado, a riconsegnare il tesoro alla chiesa, impedendo che finisca in America ed è ancora Dudù a portare sulle spalle la statua del santo, nella improbabile processione del finale, che ha poco a che vedere con la reale processione di San Gennaro, che si svolge tra le strade del centro antico e ha ben altra solennità rispetto alla realizzazione filmica. Il film si chiude con le ultime inquadrature della statua del santo, addobbata del “suo” Tesoro; sullo sfondo vi è il panorama del golfo.

Si riconferma così un’immagine stereotipizzata della città, infatti la vita e l’ideologia del popolo napoletano viene descritta secondo il modello della napoletanità. I napoletani vengono rappresentati come un popolo che, nonostante la miseria, riesce comunque a mantenere quelle caratteristiche proprie della sua natura, superando l’arretratezza sociale con la solarità mediterranea e con l’ingegno. In questo modo le stesse difficoltà del quotidiano divengono un’arte: l’arte di arrangiarsi. Lo stereotipo, pertanto, di fronte a una realtà complessa e dai forti contrasti, permette letture riduttive e semplificate, che pure hanno una loro efficacia e alle quali spesso i napoletani stessi acconsentono, autorappresentandosi in tal modo.

Di Napoli prevale pertanto l’immagine della città-cartolina, in cui tutto può avvenire, anche che il ladro diventi un benefattore della comunità.

 

  1. Ranisio, San Gennaro. Devozione e culto popolare a Napoli e nel mondo,  Elio de Rosa editore, Napoli p.239.

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Progetto: "Il Culto di San Gennaro in Campania e nel mondo", a cura del Centro Interdipartimentale di Ricerca LUPT "Raffaele d'Ambrosio" dell'Università degli Studi di Napoli Federico II.
Realizzato con il contributo della Regione Campania. Direzione Generale per le Politiche Culturali ed il Turismo. Ufficio di Staff 91 "Promozione e Valorizzazione dei Beni Culturali"
Avviso Pubblico ex D.D.n.141/2018. Ammesso a finanziamento con D.D.n.58 del 28.10.2020.

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